Il nuovo libro di Cetta Brancato, tratto d’amore e memoria

Di tutte le voci che la Sicilia, isola d’incanti e disincanti, possa avere oggi quella di Cetta Brancato, drammaturga, anima libera, donna fuori da ogni schema, poeta e visionaria, la metto in cima a tutte perché non vuole etichette. Piena di passioni e di sensibilità. Voce di un femminile mai corporativistico perché non segue la comodità dei luoghi comuni. Confesso. Sono di quelli che hanno avuto modo di stimarla da vicino dal primo giorno in cui ho avuto la fortuna di conoscerla, di stare nei suoi luoghi, di portarla a visitare i luoghi dei miei natali. Cetta Brancato è sensibilità e forza, è visione ed impegno civile con quell’innata propensione a proteggere con il bene e la premura le sue persone care. Tra i tanti e diversi libri “Mai stata al mondo” ho avuto l’onore di editarlo con entusiasmo e convincimento tanto che da breve cortometraggio (in visione qui) che racconta quel libro la spiaggia infinita della costa agrigentina è un luogo che rimane dentro.


di francesco de rosa |


Per Cetta Brancato, oggi però le luci e le attenzioni sono tutte per un altro suo nuovo libro, uscito qualche mese fa, la cui presentazione che leggerete a pagina 5 è stata affidata ad una firma che conta e resta scolpita: Liliana Segre. E conta proprio sui temi della narrazione di questa nuova “creatura” letteraria che Cetta Brancato ha pubblicato per i tipi de “La vita felice” edizioni. Così Liliana Segre ha scritto con cura ciò che pure sapeva per propria esperienza personale.

«La baracca degli intellettuali – ha scritto Liliana Segre – “drammatizza” la tragedia delle deportazioni e dello sterminio. Le deportazioni non furono tutte eguali. Solo il viaggio degli Ebrei e di poche altre minoranze era senza speranza, si concludeva con le camere a gas e i forni crematori. Ma certo anche i deportati politici e militari erano attesi nei campi tedeschi da condizioni terribili e spesso mortali. Questo rende tanto più mirabili il coraggio e la resistenza di quanti si opposero al nazifascismo. Come i politici che intrapresero la lotta clandestina e l’esilio, i partigiani che imbracciarono le armi, i lavoratori che organizzarono scioperi e sabotaggi, gli IMI che non vollero aderire alla repubblica-fantoccio di Salò: tutti costoro fecero “la scelta” anche a costo di subire il carcere e la deportazione, anche a costo della vita. La baracca degli intellettuali rinnova la sfida di fare arte dopo la Shoah. Il filosofo Theodor Adorno, che dovette cambiare il suo cognome Wiesengrund per scampare alla persecuzione antiebraica, scrisse una volta: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro». Lo è se si scrive per noia o “nel tempo libero”, non se si riconosce nella poesia e nell’arte l’unico modo per provare a dire l’indicibile, per “rappresentare” l’irrappresentabile. Si sente ripetere spesso che la realtà supera la fantasia. Ma con la Shoah è una “realtà irreale”, cioè l’impossibile, a superare la realtà e a fortiori la fantasia. Per questo qualsiasi opera d’arte autentica ci riguarda, ci interessa, ci parla e ci interroga. Solo così, come esercizio di responsabilità spirituale e civile, la fantasia e la bellezza potranno recuperare il loro significato più alto e, direi anche, la loro “missione”». Poi l’affondo è nel cuore di un libro impegnativo che narra una storia reale e l’abilità narrativa di una drammaturga a tutto tondo che sa proporre alla scena il teatro che sa narrare il reale, le storie estreme, la mafia, la resistenza e oggi anche i campi di sterminio nazista».

Poi, appena una pagina più avanti e Giuliano Banfi firma la prefazione/genesi di questo atto unico in tre scene e ci fa capire da dove viene e cosa racconta questo nuovo libro di Cetta Brancato. «Mi sembra importante – scrive Giuliano Banfi – raccontare la genesi di quest’opera, evidenziare alcuni passaggi nodali e gli obbiettivi che ne hanno informato la stesura: è la narrazione di parte della storia della mia famiglia con l’efficacia comunicativa della rappresentazione drammaturgica. Sono gli eventi che hanno investito Julia, mia madre, Giangio mio padre, Lodovico Belgiojoso e lo studio di architettura e di urbanistica BBPR. Riguardano il periodo che va dal 10 marzo 1944, data dell’arresto di Banfi e Belgiojoso, colpevoli di cospirazione e attività clandestine di fiancheggiamento della Resistenza politica e partigiana, alla sofferta comunicazione di Lodo a Julia, datata 12 maggio 1945, della morte del marito avvenuta il 10 aprile dello stesso anno, venti giorni prima della liberazione del campo di Mauthausen. Tuttavia, questa storia di famiglia per i temi affrontati, per gli eventi descritti e le informazioni fornite trascendono gli aspetti individuali e intimi per rappresentare una dimensione collettiva e paradigmatica di una condizione disumana e criminale indotta da un’ideologia mortifera come quella del fascismo e del nazismo. Infatti, nel testo teatrale la narrazione degli eventi soggettivi è strettamente connesso alla fase più acuta e drammatica delle Deportazioni nei campi di sterminio, di concentramento, di lavoro coatto e, come tale, investe indiscriminatamente tutte le deportazioni classificate con triangoli di differenti colori e per nazionalità: quella politica, la razziale, militare, religiosa, dei meno atti, i disabili, i diversi, i malati di mente. Tutti, comunque, accomunati da un comune destino: lo sterminio generalizzato in quanto dichiarati nemici del Reich, una condanna a morte, “la soluzione finale”, cinicamente programmata e differenziata nei tempi. I contenuti dei foglietti di Julia e Giangio esprimono soprattutto l’amore che li lega, la loro fiducia nella vita, assieme a una speranza di una rapida conclusione della guerra, dell’avvento di una giustizia giusta nella libertà, di una società democratica e progressiva, di un mondo di pace e di fratellanza, della ricostruzione operosa del paese dai disastri di una guerra irresponsabilmente prodotta dal nazionalismo esasperato e dal razzismo intollerabile del fascismo e del nazismo.
Contemporaneamente i messaggi clandestini accennano anche al confronto politico tra i deportati per sviluppare contenuti e obbiettivi per costruire l’unità antifascista che è stata una caratteristica originale della Resistenza italiana».

Poi, dacché l’amicizia di Cetta Brancato è vivificante, Giuliano Banfi, in coda ad una prefazione che dona al libro un enorme valore aggiunto, non può esimersi da rilevare i tratti di un legame che si è fatto ponte, condivisione, dovere di una testimonianza di chi ha raccontano e di chi ha scritto. «Ho conosciuto qualche anno fa Cetta, passeggiando, in un caldo fine agosto siciliano nella Riserva Naturale della foce del fiume Platani, su una spiaggia selvaggia e incontaminata che costeggia il mare. L’incontro ha consentito di raccontarci le rispettive attività, curiosità e interessi. Tra le cose che ci siamo detti Cetta, questa solida intellettuale palermitana, ma anche professionista di grande concretezza, mi ha raccontato di aver scritto, tra la sua produzione letteraria e poetica, “Canto per Francesca” dedicato a Francesca Morvillo. La lettura dell’opera mi ha convinto che, nell’ambito delle celebrazioni che riguardano Falcone e Borsellino, le stragi di Capaci e di via D’Amelio, la Morvillo, magistrato donna, di grande capacità professionale e dedicata alle devianze giovanili, non avesse avuto analoghi riconoscimenti.
Rientrato a Milano mi sono adoperato per portare alla Casa della Memoria, nella data della strage di Capaci, la lettura scenica di “Canto per Francesca”. L’evento, che completava le celebrazioni nelle scuole milanesi e nelle istituzioni in ricordo di Falcone. Una selezione immediata all’arrivo nel campo che riguardava ebrei, slavi, i prigionieri sovietici, i popoli orientali, i sinti e i rom, i meno adatti al lavoro; morte lenta, differita di sette-otto mesi, ma puntualmente programmata, tramite il lavoro schiavo in condizione di sfruttamento insostenibile, fame, denutrizione, maltrattamenti, umiliazioni, sevizie, malattie, freddo, fucilazioni di massa, iniezioni letali, assassinio con gas venefici e recupero dell’oro dei denti e il riutilizzo dei capelli. La mia volontà di affrontare il tema della deportazione di mio padre è nata dal ritrovamento di un faldone di documenti conservati da mia madre Julia quando, alla sua morte, ho dovuto smontare la sua abitazione. La parte più importante era costituita dalla corrispondenza, prevalentemente clandestina, tra Julia e Giangio, prima dal carcere di San Vittore e poi dal campo di Fossoli e si interrompe con l’ultima lettera di mio padre dal campo di Bolzano, prima del trasferimento definitivo per una destinazione ignota, che risulterà, a fine della guerra, Mauthausen, dove si compirà il suo tragico destino. Il carteggio comprende ottantasei lettere, trentotto pagine manoscritte del diario di Julia, purtroppo interrotto, motivato dal desiderio di poterlo commentare insieme al ritorno di Giangio, di quindici documenti in originale e alcuni disegni eseguiti da Belgiojoso. L’elemento straordinario e unico nelle testimonianze dalla deportazione, è che si tratta di foglietti clandestini inoltrati da Giangio a Julia e fogli, altrettanto clandestini, inoltrati da Julia al marito, in risposta o con salti diacronici, dovuti alla complicazione delle comunicazioni dal campo all’esterno, e viceversa. La peculiarità del carteggio dimostra che Giangio e Lodo, con l’incarico, in qualità di architetti, di dirigere lavori di adeguamento funzionale nel campo di Fossoli, intrattenevano rapporti privilegiati con personale civile e fornitori che, solidali coi deportati, trasmettevano notizie ai e dai famigliari e ai dirigenti del CLNAI a Milano e ai gruppi di partigiani locali.

Da questi materiali Cetta Brancato trae liberamente, con sapienza scenica, sensibilità psicologica e pietas umana una rappresentazione di più generazioni di intellettuali, professionisti, oppositori al nazifascismo, donne e uomini, operai e militari, maestri, professori, contadini, giovani e anziani, partigiani in armi, rastrellati casuali, ebrei e minoranze religiose: una narrazione corale delle deportazioni di grande impatto emotivo».

Qui Giuliano Banfi


«La soddisfazione – prosegue a scrivere Giuliano Banfi nella ricostruzione del suo sodalizio narrativo con Cetta Brancato – di aver concepito un’azione di memoria e di riconoscimento del contributo di donne e uomini al servizio dello Stato e di tutela dell’ordine democratico, ha approfondito i nostri rapporti e, soprattutto, la comune convinzione, di Cetta e mia, dell’efficacia del linguaggio della comunicazione artistica, di tutte le arti, perché in grado di trasmettere un coinvolgimento emotivo che può penetrare nel profondo dell’animo umano superando e rimovendo l’incapacità di ascolto, rigidità e pregiudizi consolidati. A questo punto Cetta Brancato, dopo aver letto “Amore e Speranza” la corrispondenza tra Julia e Giangio, che avevo pubblicato con Archinto editore, mi ha chiesto se fossi stato disponibile ad aiutarla per farne una drammatizzazione. La proposta mi fece molto piacere anche per il modo con cui aveva avanzato le motivazioni: Cetta, infatti, sosteneva di essere stata fortemente coinvolta nei valori, nelle scelte di vita operate da Julia e Giangio, della coerenza nell’attività di azione antifascista e contro l’occupazione nazista, unita a una qualità alta della scrittura. Perciò mi sono adoperato per metterle a disposizione i miei ricordi, le mie fragilità di orfano, di un uomo giusto e coraggioso come mio padre Giangio e le pubblicazioni postume dei compagni di deportazione di Banfi e Belgiojoso o dei sopravvissuti che documentano il percorso di sofferenza nei campi di sterminio e concentramento di Mauthausen, Gusen II e Gusen I dove Giangio muore. Infatti la corrispondenza di “Amore e Speranza” si conclude il 5 di agosto 1944 da Bolzano quando mio padre parte per una destinazione ignota e, da allora, non si hanno più notizie fino alla fine della guerra. Solo così, avvalendosi delle testimonianze dei sopravvissuti, Cetta può definire compiutamente la narrazione della fine della deportazione e dei suoi esiti».

Sin qui la ricostruzione dettagliata di una genesi che mette in luce tutto il valore di un’impresa letteraria a cui Cetta Brancato è del tutto avvezza. Riportare sulla scena del presente storie di uomini e donne diversi inseguendo in loro quella trama comune che li ha resi straordinari. Che sia Francesca Morvillo o Giulia e Giangio, Nina o tante altre figure viventi o morenti, lontane nel tempo oppure più vicine non cambia tanto Cetta Brancato, con dovizia e garbo, con efficacia e stile, sa dare parola e volto, una voce, un costrutto narrativo, un contesto per quel dono preziosissimo della scrittura che lei ha e che non diventa mai retorica o espediente celebrativo. Al contrario: è forza, atto di vita, amore che spiega amore, memoria che rifiuta ogni oblio e ogni disperata solitudine.

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